Stefania Mingozzi, 2012
Il proverbio dice “non c’è due senza tre”, e nei proverbi c’è sempre un fondo di verità. Infatti sono tornata in Senegal una terza volta.
C’è un gioco che sono sicura tutti conoscono e hanno giocato almeno una volta nella propria infanzia, un gioco in cui a occhi chiusi si conta fino a tre per poi voltarsi e guardare gli altri partecipanti. Fino al due non si vede, si rimane ciechi in attesa di cogliere qualche indizio o fruscio che suggerisca cosa sta succedendo alle proprie spalle. Al tre si aprono gli occhi.
Mi ci sono voluti tre viaggi per iniziare a vedere. Fotografie ne ho tantissime anche delle esperienze precedenti, ma sono frammenti di ricordi generici e “vasti”; i particolari non li ho mai colti, presa dall’ansia di perdere una scena e dalla preoccupazione di comprendere tutto in uno sguardo. Questa volta mi sono potuta concentrare sui particolari, tranquillizzata dalla sicurezza di ricordare luoghi e persone già conosciuti le volte precedenti.
Ho visto per la prima volta come i ragazzi di Dakar siano capaci di trasformare la loro spiaggia in una palestra, perché è più economico e semplice delle soluzioni cui ricorriamo noi.
Ho visto per la prima volta come nella maternità di Kabrousse una situazione di relativa emergenza possa creare tanto panico perché a volte l’unica possibilità di sopravvivenza sarebbe un trasferimento il più rapido possibile (per modo di dire, visto che l’ospedale più vicino è a quasi un’ora di macchina…)
Ho visto per la prima volta che c’è sempre qualche opera di manutenzione/riordino da fare; e più spesso ancora, da RI-fare.
Ho visto per la prima volta che bastano poche ore per conoscere i bambini, le loro personalità e preferenze e abitudini; e ci vuole ancora meno per assecondarle.
Ho visto per la prima volta quanto le persone qui diano fiducia subito, e si dimostrino ospitali verso chiunque; probabilmente perché è così che piacerebbe loro essere ricambiati.
Ho visto per la prima volta degli ospiti ricevere doni dalla “famiglia” ospitante, come se la loro presenza rappresentasse di per sé un dono.
Ho visto per la prima volta bambini di 6 anni venire a prendere i fratellini o sorelline di 4 all’asilo quando è finito l’orario di scuola, perché i genitori sono a lavorare.
Ho visto per la prima volta fare la spesa per sessanta orfani, calcolando i prodotti con precisione metodica; ho visto per la prima volta delle suore questionare sulla quantità e qualità dei prodotti acquistati, per ottenere il massimo rendimento al minimo prezzo; per garantire ai propri bimbi il meglio, o per lo meno il meglio possibile.
Ho visto per la prima volta il racconto di un parto complicato prendere vita di fronte ai miei occhi, al buio della capanna dove le donne della Guinea Bissau partoriscono se non hanno i mezzi o il tempo per arrivare in un luogo più sicuro; ho visto, trasportata dalle parole dell’anziana levatrice del villaggio, la mamma di Marie Soleil partorire accucciata in un angolo, e –anche in seguito a un’emorragia che le sarà fatale- trovare la forza di ringraziare la mammana per aver portato la sua bimba alla luce, che almeno lei possa sopravvivere…
Al tre si aprono gli occhi.
Al tre si vede.
Quando si vede non si può fare finta di niente: le regole del gioco dicono che si deve intervenire.
di Stefania Mingozzi